Introduzione
L’attività zootecnica di quest’ultimo mezzo secolo è stata prevalentemente orientata verso un tipo di azienda più specializzata rappresentato essenzialmente dall’allevamento di razze cosmopolite che, grazie alle elevate produzioni quantitative, si sono progressivamente affermati acquisendo un chiaro predominio numerico. Le razze locali, caratterizzate da attitudini produttive più diversificate, si sono profondamente ridimensionate e la loro riduzione è risultata particolarmente grave. Esse, infatti, avevano storicamente interessato ambienti pedemontani e altocollinari, dove la riduzione dell’allevamento ha interessato il 70% delle aziende e il 60% dei capi dal 1960 (ISTAT, Piemonte) e dove si è quasi totalmente dimenticato il loro ruolo a favore della conservazione del territorio. Studi recenti hanno evidenziato che l’abbandono progressivo di aree meno dotate da un punto di vista agricolo e perciò tendenti alla marginalità (collina e montagna) potrebbero essere recuperate con opportuni interventi di orientamento dell’allevamento; in queste aree le razze autoctone riescono a sopravvivere a dispetto della forte pressione esercitata dall’introduzione di animali domestici ritenuti, spesso a torto, più redditizi, dimostrando una migliore adattabilità all’ambiente ed una elevata capacità di utilizzazione di foraggi provenienti da prati e pascoli poveri, senza evidenziare particolari problemi legati alla riproduzione. Inoltre, l’allevamento di popolazioni autoctone di bovini, ovini e caprini orientato ad una produzione tradizionale e più qualificata consente di ottenere prodotti tipici che possono favorire la valorizzazione di particolari microeconomie locali. Da queste considerazioni scaturisce la necessità di consolidare il rapporto tra l’allevamento, il territorio e le produzioni locali tipiche per le implicazioni di carattere sociale, economico, ambientale e territoriale che da esso derivano. Soprattutto nel caso delle zone alpine e appenniniche, i sistemi zootecnici sono oggi di fronte a scelte cruciali dalle quali dipenderà la loro la capacità di evolversi e svilupparsi: di fronte alla presenza di crescenti vincoli e incentivi di ordine ecologico, essi devono trovare un migliore equilibrio tra forme di intensificazione produttiva (indotte da pressanti esigenze economiche) e modalità di gestione estensive in grado di garantire forme di integrazione positiva con l’ambiente e per contribuire alla conservazione del territorio e del paesaggio. La ricerca di questo equilibrio trova una peculiare espressione nell’impegno interdisciplinare alla valorizzazione dei sistemi d’alpeggio e pastorali in genere, per il rilevante valore produttivo e ambientale nel contesto dell’allevamento estensivo. La necessità di rafforzare il ruolo delle attività zootecniche nell’ambito di uno sviluppo sostenibile e integrato della collina e della montagna implica, però, una maggiore attenzione per i nuovi aspetti assunti già oggi (e sempre più in futuro) dalle attività allevatoriali. Accanto alla produzione principale, il latte, non possono essere trascurate le produzioni della carne e anche della lana, prestando maggiore attenzione e considerazione a quelle attività di “servizio” che tendono ad assumere crescente valore economico oltre che ecologico, paesaggistico, sociale e culturale. L’impiego degli animali di interesse zootecnico in attività di cura e manutenzione del territorio e il loro ruolo nell’ambito di iniziative turistiche, indicano come i sistemi zootecnici debbano essere diversificati in ragione di nuove esigenze che rimettano in discussione la tendenza a uniformare le tecniche di allevamento e i tipi genetici con i sistemi zootecnici di pianura. Esse mettono concretamente in evidenza come la diversità genetica delle specie zootecniche e il patrimonio di conoscenze legate ai sistemi foraggeri e di allevamento tradizionali, erosi in un recente passato anche a seguito di opinabili orientamenti “tecnico-scientifici”, vadano attivamente salvaguardati. Tale salvaguardia rappresenta, ormai, uno degli obiettivi primari del ruolo stesso della zootecnia montana. L’analisi dei sistemi zootecnici montani e della loro possibile evoluzione alla luce delle prevedibili tendenze richiede uno sforzo interdisciplinare che coinvolga i settori di ricerca legati all’utilizzo delle risorse agro-silvo-pastorali, ma anche più vasti ambiti scientifici delle scienze naturali e sociali interessati alla tutela e la valorizzazione delle Alpi e dell’Appennino intese come ambito naturale ed umano. La ridefinizione delle coordinate culturali entro cui assegnare un rinnovato ruolo all’attività zootecnica in montagna è possibile solo se, al di là del confronto tra esperienze e competenze diverse, ci si pone nella condizione di recepire gli orientamenti espressi dalle componenti sociali direttamente interessate e dalle comunità residenti. In questo disegno il WWF può assumere un ruolo importante, non solo attingendo ad esperti e specialisti di diverse discipline, accumunati dall’interesse per la realtà dell’attività di allevamento delle razze autoctone, ma favorendo momenti di incontro tra soggetti diversi (studiosi, tecnici, esperti ed esponenti del mondo produttivo, degli enti pubblici e privati) interessati alla conservazione di una collina e di una montagna ricca di espressioni produttive e cultuali oltre che di valori ambientali. Tra questi soggetti rientrano gli Enti Parco. L’allevamento nei parchi L’inclusione di aree a vocazione prettamente agricola nei parchi è stata spesso dettata dalla necessità di individuare confini che tenessero conto delle esigenze della tutela ambientale e di salvaguardia del paesaggio, ovvero dalla possibilità di utilizzare tali aree come corridoi di collegamento tra biotopi particolarmente rilevanti ma separati tra loro. Le aree agricole, soprattutto quelle a gestione estensiva, non sono però un semplice tessuto di riempimento tra aree naturalisticamente rilevanti: esse stesse costituiscono un fattore fondamentale di qualità territoriale degno di mantenimento e tutela. Questa premessa trova riscontro esaminando i dati relativi alla superficie agricola inclusa nei parchi nazionali, che non supera mediamente il 20% di ciascuna area protetta; percentuale che cresce al 35% circa se si considerano tutte le altre aree protette terrestri italiane. Se ne deduce che le attività agricole nei parchi interessano una superficie di poco superiore al 3,5% dell’intero territorio nazionale; se poi si osserva la loro localizzazione – prevalentemente in aree collinari e montane – è evidente che tali attività forniscono, in termini economici, un contributo secondario alla produzione della PLV agricola nazionale. Peraltro, occorre considerare con maggiore attenzione il ruolo dell’allevamento nei parchi. Infatti, la legge 394/91 non prevede alcuna modalità specifica per lo svolgimento di questa attività nelle aree protette; solo dalla lettura comparata e incrociata degli articoli della legge è possibile individuare la volontà, da parte del legislatore, di accettare o incentivare una zootecnia in qualche modo “diversa” rispetto a quella intensiva praticata in aree più vocate o in pianura. In altri termini, l’allevamento nelle aree protette deve svolgere – come già ricordato in premessa – un ruolo multifunzionale e di presidio del territorio, non finalizzato alla produzione di generici prodotti alimentari, ma semmai orientato al mantenimento di produzioni locali e tipiche ottenibili con tecniche di allevamento tradizionali o innovative compatibili con le esigenze della conservazione della natura. Ciò premesso, la principale necessità è quella di individuare gli strumenti migliori per impostare una zootecnia compatibile con gli obiettivi di salvaguardia ambientale e, nel contempo, in grado di garantire un adeguato reddito attraverso le produzioni stesse. In un’area protetta, una gestione corretta degli animali secondo modalità estensive con ampio ricorso al pascolamento dovrebbe sottostare a principi che la FAO definisce di efficienza (obiettivo economico), di accettabilità (obiettivo sociale) e di sostenibilità (obiettivo di conservazione). In tale contesto, per la pianificazione di attività agricole generiche nelle aree protette la FAO traccia il seguente percorso in 10 gradini: 1. l’individuazione degli obiettivi (bottom up o top down, a breve, medio e lungo termine) e dei termini di riferimento (indicatori) 2. l’organizzazione del lavoro 3. l’analisi dei problemi (confronto tra uso attuale del territorio e obiettivi; definizione delle unità omogenee di territorio e di uso del suolo) 4. l’dentificazione delle opportunità per cambiare (negoziazione e consenso della popolazione sulle possibili strategie di uso del territorio che estremizziono gli obiettivi: nessun cambiamento, massima conservazione dell’ambiente naturale, minimo investimento pubblico, etc.) 5. la valutazione delle potenzialità del territorio secondo le linee guida della FAO (“soil suitability”) o secondo altri modelli applicabili su scala locale 6. la valutazione delle alternative: analisi ambientali, economiche e sociali 7. la scelta della migliore alternativa (sulla base delle preferenze degli agricoltori locali, degli interessi delle minoranze, della politica agricola nazionale, delle disponibilità finanziarie, etc.) 8. l’elaborazione e la stesura del piano di gestione 9. l’implementazione del piano di gestione 10. il monitoraggio e la revisione Di tutto il percorso, il punto 8 (“elaborazione e stesura del piano di gestione”) costituisce il documento tecnico di partenza, lo strumento per la realizzazione delle linee guida individuate nel processo di pianificazione. Nel caso di un piano di gestione riguardante l’allevamento degli animali domestici in un’area protetta, gli elementi essenziali che il piano dovrà definire sono l’individuazione e la valutazione delle componenti vegetazionali, e la loro possibile evoluzione nelle condizioni di utilizzazione impostate. In altri termini si tratta di valutare le risorse di foraggio e la loro possibilità di mantenere un certo carico di bestiame, senza andare incontro a variazioni o involuzioni a causa di un sottocarico, per prelievo troppo modesto e selettivo, o di un sovracarico, per prelievo troppo severo. Le procedure tecniche largamente sperimentate, prevedono a questo proposito l’individuazione e la valutazione delle componenti vegetazionali in aree di saggio significative attraverso un rilievo delle vegetazione di tipo quali-quantitativo secondo il metodo “fitopastorale” di Daget e Poissonet (1969); tale metodo prevede che ad ogni specie censita venga attribuito un indice specifico in funzione di alcuni parametri legati al suo utilizzo da parte degli animali al pascolo (Cavallero et. al., 1998), così da misurare il “valore pastorale” (V.P.) di ciascuna unità vegetazionale. Il valore pastorale è, in definitiva, un indice direttamente proporzionale al carico di bestiame mantenibile, carico che valutato in tal modo è in equilibrio con la vegetazione presente e che assicura una gestione sostenibile della risorsa e quindi della componente vegetale dell’ambiente e del paesaggio. Più recentemente i dati ottenuti dai rilievi lineari sulla vegetazione sono stati anche utilizzati per il calcolo di tre parametri riquardanti la valutazione della biodiversità: la ricchezza specifica del popolamento vegetale, l’indice di Shannon e l’indice di dominanza. La ricchezza specifica (N) viene semplicemente espressa attraverso il numero di specie vegetali individuate nel corso del rilievo (N = n° di specie); in genere tale valore è influenzato dalle modalità del rilievo e dalla superficie campionata, e questo compromette in parte la confrontabilità dei dati. L’indice di Shannon (H’) prende in considerazione la struttura del popolamento vegetale considerando in particolare la frequenza relativa di ciascuna specie incontrata, in altri termini della equitabilità. E’ un indice che viene calcolato attraverso la formula seguente: H’ = – Σpi log2 pi , dove (p) è la probabilità di incontrare una specie (i) nel rilievo. L’indice di Shannon varia da 0 (assenza di biodiversità per la presenza di un’unica specie) a 7, valore che negli ambienti temperati indica una altissima biodiversità. L’indice di dominanza (R) misura la regolarità della frequenza delle specie presenti nei rilievi vegetazionali, risultando dal rapporto tra l’indice di Shannon (H’) e il valore massimo che potrebbe raggiungere la diversità misurata (H max) nel caso in cui le specie presentassero tutte un’uguale frequenza ovvero fossero equidistribuite nel rilievo: R = H/Hmax , dove Hmax = log2 N. In base a questo rapporto, l’equitabilità varia da 0 a 1, indicando al crescere del valore la tendenza ad un maggiore equilibrio della fitocenosi e quindi un minor rischio di estinzione ed erosioine dei componenti . Nei prati e nei pascoli colinari e montani, l’indice di Shannon (H’) è positivamente correlato al numero di specie presenti (N); più in particolare è stato evidenziata una crescita del valore con l’aumento del numero delle dicotiledoni erbacee non appartenenti alla famiglia delle leguminose e all’equitabilità (R), mentre non varia significativamente al variare del valore pastorale ma tende ad incrementare con un carico animale equilibrato, evidenziando che il pascolamento dei domestici, quando è gestito con criteri razionali, non compromette la diversità delle praterie (Bornard et al., 1994; Reyneri, 1999). E’ evidente, quindi, che l’analisi fitopastorale permette di descrivere la situazione vegetazionale dei pascoli e di porla in relazione all’utilizzazione da parte degli animali presenti. L’animale domestico, infatti, è in grado di incidere anche in tempi brevi sul popolamento vegetale, evidenziando una influenza spesso negativa tra livello basso di utilizzazione di un pascolo e il suo valore pastorale e, conseguentemente, sulla biodiversità della vegetazione pastorale (Acutis et al., 1989). Questo strumento, applicato a un’area protetta, consente una corretta gestione degli animali ed è quindi di fondamentale importanza per un utilizzo razionale dei pascoli, al fine di evitare competizioni con i selvatici, o per assegnare ad aree ben definite un carico di bestiame ovvero un’intensità di allevamento e atto a valorizzare al meglio le risorse foraggere disponibili. Ma l’importanza delle superfici erbacee ha un particolare e peculiare valore non solo per quel che concerne le attività pastorali e la conservazione della biodiversità, ma anche per l’impatto sul paesaggio e sull’ambiente in genere, con ripercussioni positive sul turismo e sull’uso ricreativo delle aree protette. Una più precisa e obiettiva quantificazione del carico ammissibile al pascolo in termini di UBA/ha/anno (Unità Bovine Adulte a ettaro in un anno), unita all’allevamento di razze autoctone o locali con tecniche compatibili con gli obiettivi di tutela, possono consentire di calcolare e certificare le produzioni ottenibili. Piani simili trovano già applicazione in alcune zone del territorio italiano (Val d’Ossola, Verbania) e in talune aree protette europee. In Irlanda, ad esempio, gli allevatori del Burren National Heritage Area sottostanno ad alcune regole che includono il divieto di pascolo estivo nelle aree di svernamento, l’ammissione al pascolo di un numero definito di animali per evitare sovra o sottopascolo, il divieto di pascolo ovino in aree non idonee e il divieto o la limitazione di supplementazioni alimentari mediante mangimi. Nella stessa area protetta, il controllo delle infestanti e di cespugli indesiderati in determinate aree viene effettuato mediante il pascolo; non è inoltre permessa alcuna concimazione organica o minerale, né l’accumulo e il successivo spandimento delle deiezioni. Queste regole, che possono a prima vista apparire eccessivamente rigorose, sono in realtà ben accette dalla maggioranza degli allevatori locali (che producono vitelli per il mercato italiano) pur con qualche eccezione; il piano ha comunque incentivato l’apertura di nuove aziende zootecniche di piccole dimensioni. Gli eventuali mancati redditi sono infatti compensati con i finanziamenti europei previsti dal Piano di Sviluppo Rurale e da facilitazioni fiscali per coloro che praticano la zootecnia in aree protette. Aree protette e aree marginali: il ruolo della zootecnia Salvo pochissime eccezioni, in Italia non si può parlare di razza “tipica” o “esclusiva” di un parco. In generale, le razze domestiche a limitata diffusione sono presenti in aree ristrette ma raramente coincidenti con un’area protetta: fanno eccezione pochissime popolazioni reliquie, di cui si contano meno di 100 capi allevati. Più spesso nelle zone montane, la presenza di mandrie e greggi in un’area protetta ha carattere stagionale; gli animali vengono generalmente condotti al pascolo estivo, oppure transitano temporaneamente all’interno delle aree protette durante la transumanza per sfruttare le risorse foraggere presenti in un determinato peridodo dell’anno. Questa caratteristica fa sì che la gestione degli animali domestici nelle aree protette debba rapportarsi innanzitutto con l’intero territorio della Comunità all’interno della quale sono stati disegnati i suoi confini, ma anche fungere da modello per la sperimentazione di una zootecnia più attuale e multifunzionale nelle zone marginali, cioè in quei territori caratterizzati da situazione geo-pedologiche ed orografiche di particolare difficoltà (assimili a quelle di gran parte delle aree protette italiane) in cui l’agricoltura tradizionale o intensiva non è in grado di assicurare livelli di reddito accettabili. Ma anche territori in cui la forte carenza di infrastrutture e di un accettabile livello dei servizi sociali più comuni non sono la causa, bensì la conseguenza della marginalità stessa. Qui, l’interazione che, come noto, si viene a creare tra le difficoltà ambientali del territorio e i limiti strutturali del settore agricolo, dà vita a quello che è considerato un fenomeno tipico delle aree marginali: lo spopolamento e il progressivo invecchiamento della popolazione residente. In queste condizioni, esiste un sistema economico locale che non riesce a decollare e ad autoalimentarsi, che non è in grado di conseguire prima, e di mantenere dopo, un proprio sviluppo autonomo, ma che in presenza di un appropriato intervento pubblico può giungere ad una più efficiente utilizzazione delle risorse. Per le aree marginali si assiste ad un crescente interesse al loro recupero, perché si considerano facenti parte di un sistema economico complessivo, e perché il loro totale abbandono può avere ripercussioni non solo sul territorio in oggetto, ma anche su quello posto a valle e sui centri abitati. Se è ormai opinione condivisa che sia indispensabile garantire la presenza dell’uomo nelle aree marginali o di favorirne il ritorno ove possibile, è altrettanto assodato che solo una gestione dell’ambiente attraverso un’utilizzo silvo-pastorale può garantire la stabilità del territorio e incrementarne la fruibilità. Razze e parchi La maggior parte delle razze allevate o presenti occasionalmente nei parchi italiani appartiene a tipi genetici a discreta o ampia diffusione sul territorio nazionale. E’ il caso, ad esempio, della razza bovina Valdostana nel Gran Paradiso, della Grigia Alpina allo Stelvio, della Romagnola e della Chianina nei parchi appenninici (dalle Foreste Casentinesi ai Monti Sibillini al Gran Sasso – Monti della Laga), della Podolica al Gargano, nel Cilento – Vallo di Diano e nel Pollino; o delle pecore di razza Bergamasca e Tiroler delle Alpi, o della Massese, dell’Appenninica e delle merinizzate dei parchi del centro-sud. Ma, coerentemente con quanto ricordato precedentemente sulla zootecnia nelle aree protette, è la presenza di razze autoctone a limitata diffusione che può costituire particolare motivo di interesse per un parco. Accanto agli obiettivi di conservazione del germoplasma animale, un parco può e deve incentivare la permanenza di tali razze sul proprio territorio per impostare quel modello di zootecnia compatibile con gli obiettivi di tutela dell’ambiente e del paesaggio e in grado al tempo stesso di garantire reddito agli allevatori attraverso la produzione e la commercializzazione di prodotti tipici e locali. Nelle tabelle successive è riportato un elenco delle razze autoctone incluse nel “World Watch List for Domestic Animal Diversity” della FAO (3a edizione, 2000), cioè appartenenti a tipi genetici minacciati di estinzione, e presenti stabilmente o occasionalmente nelle aree protette italiane. La dicitura “endangered” indica razze con un numero di femmine compreso tra 100 e 1000, e un numero di maschi pari al 20% della popolazione totale e superiore a 5, ovvero una popolazione di 80-100 capi, in aumento, con più dell’80% di femmine in purezza, ovvero una popolazione compresa tra 1000 e 1200 capi ma in diminuzione. La dicitura “critical” indica razze con meno di 100 femmine allevate o meno di 5 maschi, ovvero che l’intera popolazione conta meno di 120 capi in totale, è in decremento ed esiste meno dell’80% di femmine riprodotte in purezza. Le tabelle non includono le razze avicole (censite dalla FAO) e cunicole nazionali, attualmente allevate a livello hobbistico e amatoriale, e talora presenti in alcune aree protette italiane. L’elenco è inoltre integrato con dati di altra provenienza (Università, CNR, Assiciazioni Allevatori, Regioni, Province); è tuttavia da considerare puramente indicativo perché attualmente non esiste un censimento del numero di capi e delle razze presenti nelle aree protette nazionali. Asini e Cavalli Asini e cavalli hanno subito in Italia e in Europa una fortissima contrazione numerica a seguito della introduzione della meccanizzazione in agricoltura. Un esame della dinamica delle popolazioni equine ed asinine mette in risalto come l’indirizzo ufficiale nel nostro Paese fini al 1940 fosse prevalentemente di produzione di soggetti per l’esercito, per la lavorazione del suolo, per la gestione dei boschi, per il trasporto locale e per la produzione di carne. A parte si consolidava l’allevamento del cavallo da competizione. Dal 1950 il numero di capi allevati cala drasticamente, e solo negli anni ’80 vengono riconosciuti per le due specie nuovi indirizzi di produzione: quelli tradizionali (sportivo e di produzione della carne) a quelli innovativi, legati alla “produzione di benessere”. Di qui, la richiesta di asini e cavalli come animali da compagnia, come strumenti di valorizzzione del tempo libero e di impiego in casi di terapia. Le razze asinine autoctone ancora presenti in Italia sono 5; l’elenco della FAO include una sesta razza, il Romagnolo, di cui potrebbero esistere ancora alcuni esemplari in purezza. La razza Pantesca, o di Pantelleria, sopravvive con alcuni esemplari non puri in poche località della Sicilia. I cavalli di origine italiana appartengono a 13 razze, di cui 11 sono riconosciute dalla FAO in situazione “critical” o “endangered”; L’elenco FAO non include il Sanfratellano, presente nel parco regionale del Nebrodi, in Sicilia. Asini e Cavalli Parco o area protetta Status Asino dell’Asinara P. N. Asinara Critical Asino Sardo (P. N. Gennargentu) Critical Cavallo di Persano P. N. Cilento Vallo di Diano (?) Endangered Cavallo Norico P. N. Stelvio Endangered Cavallo Salernitano P. N. Cilento Vallo di Diano (?) Endangered Bovini In Italia la specie bovina ha visto l’affermarsi negli ultimi decenni di poche razze cosmopolite ad elevatissima specializzazione. Tra quelle allevate per la produzione di latte, sei razze (di cui 3 di origine straniera) assicurano il 96% della produzione ufficialmente controllata, mentre il restante 4% è prodotto da 14 razze autoctone. La situazione nel mercato della carne – di cui l’Italia è deficitaria per oltre il 50% – è altrettanto drammatica, con 6 razze autoctone specializzate in questo indirizzo produttivo (Piemontese, Maremmana, Chianina, Marchigiana, Romagnola e Podolica) ma sempre più in difficoltà di fronte alla crescente competitività di razze e mercati stranieri. Secondo la FAO, 14 razze bovine italiane sono in situazione critica o minacciate di estinzione. Molte di esse sono presenti nelle aree protette anche in modo permanente (Maremmana, Pontremolese, Pisana) e sono oggetto di interventi di salvaguardia. Numerose razze autoctone a diffusione più ampia sono presenti nei parchi italiani; tra queste, le 3 razze valdostane (Pezzata Rossa, Pezzata Nera e Castana nel parco del Gran Paradiso), la Grigia Alpina e la Pinzgauer (nel parco dello Stelvio), la Romagnola (nel Parco del Delta del Po e delle Foreste Casentinesi), la Chianina (in numerose aree protette appenniniche) e la Podolica (nei parchi dell’Italia meridionale). Bovini Parco o area protetta Status Maremmana P. R. della Maremma Critical Varzese-Tortonese-Ottonese P. R. Ticino, P. R. Monte Aveto Critical Pontremolese P. R. Alpi Apuane Critical Modicana P. R. Nebrodi Endangered Cabannina P. R. Monte Aveto Endangered Garfagnina P. R. Alpi Apuane Endangered Modenese P. R. del Gigante Endangered Pisana P. R. Migliarino – San Rossore Endangered Pustertaler – Sprinzen P. R. Fanes-Sennes-Braies Endangered Ovini A differenza dei Paesi nordeuropei, l’ovinicoltura italiana ha da sempre privilegiato l’allevamento di razze con spiccata attitudine alla produzione di latte. Solo in alcune aree prevale l’allevamento di razze da carne, spesso attuato con periodici spostamenti delle greggi dalla pianura alla montagna (pastorizia nomade o transumante) attraverso tratturi o vie di transito tramandate da generazioni. L’allevamento per la produzione della lana è ormai quasi del tutto scomparso. La specie ovina è la più ricca di razze in Italia; la FAO ne censisce 27 minacciate di estinzione, mentre il numero totale di razze è superiore a 50. Di queste, alcune sono periodicamente presenti nelle aree protette, come la Biellese e la Bergamasca nei parchi dell’arco alpino occidentale e centrale, la Tiroler allo Stelvio e in altri parchi altoatesini, la diffusissima Appenninica (presente in quasi tutti i parchi dell’Italia centrale), la Sarda e la Comisana, frequenti nei parchi delle isole e in molte aree protette continentali, la Gentile di Puglia (diffusa in molte zone del Sud Italia), e così via. Ovini Parco o area protetta Status Rosset P. N. Gran Paradiso Critical Savoiarda P. R. Orsiera – Rocciavrè Critical Frabosana P. R. Alta Valle Pesio Endangered Marrane P. R. Monte Aveto Endangered Matesina P. R. Monti del Matese Endangered Nobile di Badia P. R. Fanes-Sennes-Braies Endangered Tacola P. R. del Po, P. R. Baragge Endangered Varesina P. R. Groane Endangered Garfagnina Bianca P. R. Alpi Apuane Endangered Lamon P. N. Dolomiti Bellunesi Endangered Sopravissana – Vissana P. N. Sibillini Endangered Caprini Le razze caprine sono uniformemente distribuite in tutta la penisola e le isole. Secondo alcuni Autori, molte razze dell’arco alpino sono caratterizzate da un pool genetico relativamente simile a quello dei progenitori selvatici, tanto da essere classificate come razze “primarie” o “primitive”. Nell’ottica di un programma di conservazione del germoplasma animale, sono da considerare prioritarie rispetto a razze più selezionate o frutto di incroci; tra esse si annoverano la Bionda dell’Adamello (presente nell’omonimo parco in Lombardia e in Trentino Alto Adige), la Orobica o Valgerola (allevata nel parco delle Alpi Orobie) e la Frisa valtellinese. La FAO riporta 22 razze minacciate di estinzione; secondo molti Autori, per alcune di esse resta dubbia l’effettiva originalità genetica, come nel caso delle razze di Benevento, di Campobasso, di Potenza, di Salerno, di Roccaverano e Potentina. Tra le razze del Sud Italia non citate dalla lista della FAO meritano di essere ricordate la Garganica, allevata nei parchi nazionali del Gargano e del Pollino, e la Nera dei Nebrodi, presente nell’omonimo parco regionale siciliano. Caprini Parco o area protetta Status (*) Vallesana P. R. Alpe Veglia Critical Argentata dell’Etna P. R. Etna Endangered Bionda dell’Adamello P. R. Adamello Endangered Cilentana Fulva P. N. Cilento Vallo di Diano Endangered Cilentana Nera P. N. Cilento Vallo di Diano Endangered Napoletana P. N. Vesuvio Endangered Sarda (P. N. Gennargentu) Endangered Suini La specie suina è stata protagonista, in Italia e in Europa, del più diffuso fenomeno di estinzione tra gli animali di interesse zootecnico. Un censimento degli inizi del ‘900 riportava per l’Italia la presenza di oltre 20 razze e popolazioni suine; oggi sono ridotte a 5, tutte in condizioni precarie. L’atlante della FAO ne riporta 7, includendo l’Hampshire (di origine inglese) e suddividendo la popolazione siciliana in 2 razze distinte: la Siciliana e il Nero dei Nebrodi e Madonie. Il processo di estinzione è stato causato dal progressivo abbandono delle razze autoctone – tendenzialmente più predisposte all’ingrassamento, lente nell’accrescimento, poco prolifiche e allevate allo stato brado o semibrado – a favore di ibridi stranieri allevati con sistemi intensivi in porcilaie industriali. Oggi sono in atto programmi di recupero delle razze superstiti, che spesso si sono dimostrate migliori per alcune produzioni locali e tipiche. Anche il WWF ha contribuito a uno di questi programmi in collaborazione con le Università di Torino e di Milano per la salvaguardia della razza Mora Romagnola. Suini Parco o area protetta Status (*) Nero Siciliano P. R. Nebrodi, P. R. Madonie Critical Calabrese P.N. Pollino, P. N. Aspromonte Endangered Conclusioni La tutela del germoplasma animale autoctono rientra a pieno titolo nelle finalità e negli obiettivi di conservazione delle aree protette italiane. L’allevamento di queste razze si configura anche come la migliore e più economica attività per il recupero delle aree marginali che, per sottrarsi alla competizione con le zone più produttive, dovranno puntare ai medesimi strumenti e obiettivi previsti per la zootecnia nei parchi, e cioè il ricorso a tecniche moderne di pascolamento o a forme di allevamento estensive con bassi impieghi di manodopera e all’utilizzo di razze autoctone, caratterizzate da bassa produttività ma elevata adattabilità all’ambiente di origine e in grado di fornire prodotti tipici e di qualità. E’ in questa ottica che il WWF e l’AMAB (Associazione Mediterranea di Agricoltura Biologica) hanno promosso nel 2000 un protocollo d’intesa con i parchi nazionali finalizzato allo sviluppo di idonee iniziative congiunte per la valorizzazione delle attività zootecniche e delle produzioni ottenute dall’allevamento di razze autoctone nelel aree protette e nelle zone contigue. All’iniziativa hanno sinora aderito 11 parchi: Gran Paradiso, Stelvio, Abruzzo, Circeo, Calabria, Gran Sasso – Monti della Laga, Maiella, Arcipelago Toscano, Pollino, Monti Sibillini e Vesuvio. Ma la difesa delle razze autoctone, e con esse di quel tipico paesaggio agrario italiano che proprio dall’attività zootecnica trae origine, è anche l’obiettivo di una prossima campagna del WWF, che dovrà portare alla realizzazione della prima “rete” nazionale di allevatori di razze autoctone: i cosiddetti “allevatori custodi”. L’adesione spontanea all’iniziativa – che è in attesa di approvazione da parte del Ministero dell’Agricoltura – da parte di numerosissimi allevatori e di molti ricercatori universitari, lascia ben sperare nel futuro successo di questa campagna. A tale scopo, il WWF ha anche sostenuto la recente fondazione del comitato “RARE” (Razze Autoctone a Rischio di Estinzione), tra le cui finalità rientrano il coordinamento delle iniziative e delle attività di conservazione delle razze e razze-popolazioni autoctone italiane di animali di interesse agricolo a rischio di estinzione, la valorizzare del ruolo scientifico, culturale, sociale e ambientale delle razze autoctone italiane a rischio di estinzione e la promozione dell’associazionismo tra allevatori italiani di razze autoctone minacciate di estinzione.